Emana una sensazione di pacata indifferenza rispetto all’incessante traffico di biciclette e di curiosi che si dirigono, carichi di aspettative esagerate, verso il vicino mercatino delle pulci, la statua in bronzo che la città di Amsterdam si è finalmente decisa a dedicare a uno dei suoi cittadini più illustri, Baruch Spinoza. Inaugurata nel 2008, sorge da un piedistallo ellittico che porta incisa sul bordo la frase «Il fine dello stato è la libertà» e su cui è posato anche un perentorio icosaedro di granito nero. Il volto di Spinoza è ricalcato fedelmente su quello riprodotto sulle vecchie banconote olandesi da mille fiorini, mentre il corpo è completamente nascosto da un imponente mantello, innaturalmente rigido, su cui sono posati degli uccellini e delle piccole rose. Pare che lo scultore, tale Nicolas Dings, abbia voluto far riferimento alla travagliata storia del filosofo, figlio di ebrei sefarditi cacciati dal Portogallo, espulso infine dalla stessa comunità ebraica di Amsterdam perché accusato di eresia. Gli uccellini, infatti, sono in parte pappagallini verdi, animali esotici che, guadagnata fortunosamente la libertà, hanno colonizzato nel corso degli ultimi vent’anni gli alberi di alcuni parchi della città, e in parte passeri olandesi, appartenenti a una popolazione sempre più esigua di pennuti autoctoni. Come a dire che Spinoza viene elevato, attraverso questa statua, a simbolo di tutti i migranti che lottano per trovare un luogo in cui sentirsi finalmente a casa e la città di Amsterdam è indicata come il luogo in cui questa lotta può riuscire, oggi come nel XVII secolo, meno faticosa. Le rose forse rimandano alle spine richiamate dal cognome del filosofo, ma è un’ipotesi non confermata…
Cosa c’entri tutto ciò con l’oggetto di questa breve recensione è presto detto: niente, o quasi. Però effettivamente l’immagine così distaccata che la grande scultura trasmette all’osservatore contribuisce a nutrire l’interrogativo di fondo da cui prende spunto questo scritto: perché dei giovani autori satirici italiani abbiano scelto di chiamare il loro blog proprio “Spinoza.it”. Tanto più che uno dei più citati adagi spinoziani, citato in tutti i manuali di storia della filosofia, recita «non ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere». In realtà, di risposte esplicite a questa domanda ce ne sono almeno un paio. La prima la si può trovare tra le FAQ del blog stesso. Domanda: Perché il blog si chiama così? Che c’entra Spinoza? Risposta: Spinoza era nostro zio. La seconda, un po’ meno faceta, è contenuta nel primo libro (ne sono seguiti altri due) che raccoglie diverse centinaia di battute già pubblicate in rete, ma anche in parte inedite. Gli autori, Stefano Andreoli e Alessandro Bonino, scrivono: «Quando è nato Spinoza.it, nel 2005, nessuno si è accorto di niente. C’erano solo un nome e una faccia simpatica: quelli di un filosofo olandese, per di più scomunicato, che invitava ad “attraversare la vita in serenità, letizia e ilarità”. E tanto bastava per volergli bene» (Spinoza. Un libro serissimo, a cura di S. Andreoli e A. Bonino, Prefazione di Marco Travaglio, Alberti editore, Roma 2010).
Chissà se Spinoza sarebbe contento di questa dichiarazione d’amore.
Certo il suo nome è frequentemente associato a concetti come quello di libertà di espressione o di tolleranza religiosa. Nel suo caso, libertà repressa e tolleranza ignorata: il testo della sua scomunica, una vera e propria invettiva infarcita di variopinte maledizioni, è stato il primo post pubblicato sul blog, come se gli autori avessero da subito voluto chiarire che sapevano quel che rischiavano.
Ma forse, oltre a questo, è proprio la volontà di comprendere, quindi anche di demistificare, che può tenere insieme inusitatamente gli autori (tantissimi, ormai) delle battute fra le più dissacranti che circolino oggi sul web italiano e il filosofo delle passioni tristi, il quale, come avrebbero testimoniato i suoi contemporanei, non sorrideva mai.
Nel caso del blog, che ha vinto numerosi premi negli ultimi tre anni, la comprensione della realtà contemporanea passa attraverso lo smascheramento dell’ipocrisia, la messa in evidenza (e alla berlina) di contraddizioni palesi eppure ostinatamente ignorate, la capacità di far balzare agli occhi le menzogne del potere in tutta la loro volgarità. Tutto questo attraverso battute che vengono definite dai commentatori, ma anche dagli autori stessi, con aggettivi che ne evidenziano l’efficacia distruttiva: caustiche, corrosive, taglienti. Ma anche scomode ed inevitabili. Talvolta persino sgradevoli.
Eh già, perché la satira non guarda in faccia niente e nessuno, e capita anche fra gli spinoziani che ci si interroghi sulla liceità o meno di porre dei limiti alla satira stessa. Si veda per esempio, all’interno della sezione “chiacchiere” del forum, il post che si intitola: dubbi morali sull’opportunità di satireggiar tragedie, con un bel corredo di risposte e di controrisposte di diverso tenore che sembrano alla fine sancire il diritto della satira a non subire limitazioni di sorta, ad infischiarsene di buon senso, buongusto, discrezione ed educazione.
Alcune battute sono semplicemente divertenti: Mike Tyson diventa vegano. Panico tra gli ortaggi.
Altre tristemente realistiche: In Italia un laureato su due è precario. L’altro lo invidia.
Poi ci sono folgoranti giochi di parole: Dell’Utri: “Ciancimino mente”. Lui braccio?
Battute lapalissiane: Anche il comune di Milano intitolerà una via a Bettino Craxi. La tangenziale.
Ciniche: Fame e saccheggi ad Haiti dopo il terremoto. Lentamente si sta tornando alla normalità.
Cattive: Gasparri negativo al test antidroga. Cade anche l’ultima possibile attenuante.
Cattivissime: troppe per poterne scegliere solo una…
Filosofico-scientifiche: Ferrara cita Kant. I tre stadi dell’evoluzione.
Alcune addirittura scontate: Nasce il navigatore pensato per le donne. Guida lui.
Raggruppate per argomenti o personaggi o contingenze, distribuite in ordine più o meno cronologico, nel loro insieme danno come risultato una specie di romanzo aforistico, un manuale esilarante di storia contemporanea, «forse la manifestazione fisiologica di un disagio collettivo, una reazione allergica della nostra mente a questi tempi sempre più balordi. Forse il senso della vita. O forse un gattino» (Spinoza. Una risata vi disseppellirà, a cura di S. Andreoli e A. Bonino, Alberti editore, Roma 2011).