[ DANIELA CARPISASSI, Panorama degli studi sull’umorismo/ironia “femminile” e femminista: questioni, prospettive e genealogie, in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, gennaio/aprile 2012, nuova serie n. 205, pp. 33-48 ]
Il panorama degli studi pubblicato da Daniela Carpisassi ricostruisce lo stato e la storia delle ricerche anglofone, francofone e italiane caratterizzate dall’intersezione tra questioni di genere e teorie sull’ironia/umorismo. L’articolo ne ripercorre snodi, tradizioni, genealogie e problematiche adottando una prospettiva sistemica, multidisciplinare e intrecciando livello diacronico e sincronico. L’approccio volutamente complesso è necessario proprio in virtù del carattere ex-centrico dei due ambiti studiati: sia l’ironia/umorismo che gli studi femministi si occupano di oggetti renitenti alle categorizzazioni e sono legati al sistema di valori e al contesto storico in cui si danno.
L’ironia femminile/femminista è praxis ricorrente nel pensiero, negli scritti filosofici e letterari e nell’agire politico delle donne, ma resta un tema poco dibattuto e riconosciuto, soprattutto in Italia. A fronte di una certa centralità assunta dal femminile nel pensiero filosofico (es. decostruzionista francese), rare e marginali sono le riflessioni sulla componente femminile-relazionale dell’ironia. Nonostante l’affermazione delle ricerche di genere, i punti di contatto tra gli obiettivi-modalità dell’ironia e quelli delle pratiche/riflessioni femministe sono ancora trascurati. Questi elementi di contatto sono sintetizzabili in tre punti fondamentali: la messa in questione della monolicità e universalità del sedicente Sapere neutro e serio, nonché lo svelamento dei suoi fondamenti; la critica di un modello di Pensiero basato sulla centralità di un soggetto astratto; l’assunzione dei punti di vista delle soggettività particolari o incarnate, dei concetti di limite, differenza e propria/altrui parzialità.
È infatti evidente la parentela tra gli studi dedicati ad alcuni aspetti dei femminismi – mettere al centro le relazioni, nominare il vissuto «partendo da sé», elaborare un «pensiero dell’esperienza» – e le analisi dell’ironia quale strumento che rende parlante la complessità nell’esercizio del pensiero ed esperienza creativa, prassi che più di altre ha luogo in «situazione» nell’enunciazione-narrazione e a patto di una complicità tra i soggetti coinvolti.
In Occidente i primi studi sul rapporto tra umorismo/ironia e gender vengono pubblicati alla fine degli anni ’70 negli Stati Uniti e riguardano opere di autrici in lingua inglese. Si tratta di un filone d’indagine che prende piede negli anni ’80-’90 nelle sezioni di women’s studies istituitesi in ambito accademico (STORA-SANDOR J. 1992), dove vengono anche edite le prime raccolte di ricerche di area statunitense e british. L’interesse nei confronti del soggetto «umorismo» delle donne non appartiene alla prima generazione di studiose femministe di storia, letteratura, psicologia e antropologia degli anni Sessanta e Settanta, ma alla seconda generazione di sapere, competenza e cultura delle donne sulle donne (SOCHEN J. 1996). Fanno eccezione gli studi pionieristici di Emily Toth sullo humour femminile editi nel 1978.
Particolarmente fertili sono stati gli studi letterari, di cui è esempio la monografia di Judith Little Comedy and woman writers del 1983, divenuta testo di riferimento per l’analisi dell’umorismo delle scrittrici e che prende le mosse dall’idea di Virginia Woolf che la comedy scritta dalle donne possa essere differente da quella scritta dagli uomini. In generale, per le ricerche sulla women comedy si può parlare di rete d’intertestualità e di consapevole rapporto genealogico, come è evidente nelle bibliografie che corredano vari interventi di ricercatrici inglesi e statunitensi.
La tradizione franco-canadese è più recente e quantitativamente inferiore rispetto a quella anglofona. È dedicata ad opere di scrittrici umoristiche in francese e in inglese, a testi e performance di commediografe-attrici di monologhi comici (le monologistes o one-woman-show), o all’analisi comparata di pubblicazioni di autrici francesi e del Quebec. L’interesse è incentrato sugli aspetti tematici delle opere e anche in questo caso sono presenti richiami tra studiose e tra queste e le umoriste oggetto dello studio.
I contributi italiani allo studio dell’ironia femminile/femminista, come quelli di Marina Mizzau, Adriana Cavarero e Marisa Forcina, caratterizzano gli anni Ottanta e Novanta e sono stati per lo più ignorati, nonostante l’originalità dei loro approcci.
A livello disciplinare, si osserva che le prime ricerche sullo humour femminile hanno riguardato il campo letterario, in quanto spazio di espressione dell’oppressione storicamente subita dalle donne. In seguito sono stati coinvolti altri settori disciplinari, come quello linguistico, antropologico e delle scienze sociali, creando anche occasioni di confronto in ambito accademico. Un esempio è la giornata di studio organizzata da CORHUM-CRIH all’Université Paris VIII nel 1994 (MARTIN G.V. 1995).
Gli approcci sono differenti. Per quanto riguarda la psico-socio-linguistica, la variabile della differenza sessuale viene talvolta assunta come accessoria, una tra le tante possibili. In altri ambiti, invece, è l’ottica ideologica focalizzata sull’individuazione-rivendicazione della differenza di genere ad incrociare incidentalmente l’esame delle pratiche umoristiche. Più rara è la contaminazione sul piano teoretico tra epistemologia femminista e studio dell’umorismo (LITTLE J. 1983).
L’interdisciplinarità è di fatto inevitabile: se si considera la differenza sessuale nello studio della letteratura umoristica è praticamente impossibile restare nel quadro dell’analisi letteraria, dato che l’umorismo implica diversi fattori, come le rappresentazioni sociali e le tradizioni culturali, che variano secondo il luogo e l’epoca, oppure i fantasmi inconsci (STORA-SANDOR J. 2000).
Ad accomunare molte delle riflessioni sul rapporto tra ironia e differenza sessuale è il carattere pragmatico, il privilegiare il metodo induttivo e l’articolare la questione del gender a partire dall’individuazione e dall’osservazione fenomenologica delle pratiche umoristiche.
In ambito linguistico e psico-socio-linguistico sono stati analizzati e commentati i risultati di indagini empiriche a campione riguardanti le attitudini comportamentali delle donne e degli uomini rispetto all’umorismo (in particolare scambi nella comunicazione relativamente alla produzione e alla ricezione-apprezzamento-valutazione di enunciati umoristici).
La linguista Marina Mizzau sostiene che quando si studia l’ironia delle donne, uno sguardo contingente e calato nell’esperienza sia da preferirsi all’astratto confronto tra mondo maschile e femminile basato su una visione identitaria, o all’interrogarsi sulla minore o maggiore capacità di ironia delle donne rispetto agli uomini (MIZZAU M. 1988). È necessario partire dall’osservazione, concentrarsi su domande relative a modalità e funzioni dell’espressione ironica delle donne, alle sue caratteristiche a seconda che abbia luogo nei rapporti di lavoro, nel politico, nella relazione con l’altro sesso o con le altre donne. Mizzau privilegia la dimensione situazionale e relazionale nella sua analisi e definisce la comunicazione ironica come scelta strategica e uso di un potenziale creativo.
Tra le filosofe italiane che si occupano di ironia o comico, ma anche del pensiero della differenza sessuale troviamo innanzitutto Adriana Cavarero, che si è focalizzata sul tema dell’esperienza e sull’opportunità di tenere insieme pensiero, astrazione e vissuto occupandosi del riso della serva tracia di cui scrive Platone (CAVARERO A. 1990). Rossella Prezzo ha sottolineato il ruolo ancillare e di subordine del comico nella tradizione occidentale (PREZZO R. 1994), mentre Marisa Forcina sostiene che l’ironia non vada indagata come concetto sostanziale, bensì utilizzata come modulo, linea discontinua d’interrogativi «che fa, inevitabilmente, saltare ogni tentativo di universalizzazione e unificazione del discorso in una neutralità che non dà conto della potenzialità del soggetto pensante» (FORCINA M. 1998, p.41). Sua è anche una riflessione sulla specificità e sul portato simbolici dell’ironia delle donne e del suo valore perturbante, indagando il ricorrere dell’ironia nel fare e nei testi di pensatrici e scrittrici come Hannah Arendt e Marguerite Yourcenar.
Tornando al mondo francofono, troviamo Judith Stora-Sandor, che critica il manicheismo dell’impostazione storico-sociologica concentrata sulla questione dell’oppressione femminile: l’indagine sulle «parole umoristiche delle donne che circolano tra tre poli: dominazione, sovversione e liberazione, permette di comprendere meglio l’evoluzione del loro posto nella società» (STORA-SANDOR J. 2000, pp. 23-24). Col tempo, infatti, le riflessioni si sono affinate e il soggetto donna è stato ripensato in relazione alle tensioni che lo attraversano. Stora-Sandor parla di una ricerca »«pragmatica situata», in cui l’analisi deve partire da sé, dal vissuto delle ricercatrici stesse, dal rapporto tra il loro senso dell’umorismo e la loro differenza/marginalità. È contraria alla rivalutazione della letteratura femminile secondo un punto di vista militante, poiché si tratta di una forzatura interpretativa. Di questa forzatura fanno parte la definizione di «patriarcale» applicata ad alcune scrittrici statunitensi, l’occuparsi di dimostrare che la female comedy è molto più sovversiva e rivoluzionaria di quella maschile nonostante si presenti inoffensiva e indulgente, nonché lo svalutare/sottovalutare l’autoironia, componente tipica dei gruppi minoritari.
A questi approcci si aggiungono quelle indagini che privilegiano il piano del simbolico e dell’immaginario, come le riflessioni sulle ridenti figure femminili protagoniste dei racconti fondativi, mitici e archetipici. Fanno parte di queste riflessioni la rilettura del riso pan cosmico di Demetra e Amaterasu (FEUERHAHN N. 2006), l’interpretazione del riso di Medusa (CIXOUS H. 1975), l’analisi del rapporto tra il riso accogliente di Sarah, quello empatico e contagioso delle dee Baubo e Demetra e quello ambiguo di Gorgone (CARPISASSI D. 2011).
Si nota infine come ci sia una contaminazione tra lo stile degli studi e il loro oggetto di indagine, che porta ad iscrivere ironia e autoironia nel colore e nell’andatura stessa della scrittura saggistica, nonché ad assumere una prosa più narrativa rispetto a quella specialistica degli women’s studies accademici. In questo senso farei notare l’affermazione di Marina Mizzau a proposito dell’utilizzo del genere femminile per indicare un ipotetico lettore (anzi, un’ipotetica lettrice): «D’ora in poi proverò a fare così, userò il femminile o il maschile indifferentemente, a caso […] Un piccolo contributo, il mio, al linguaggio politicamente corretto» (MIZZAU M. 2005, p.15).
L’umorismo delle donne negli studi sul rapporto tra ironia/humour e gender, viene spesso proposto come categoria separata da altre forme di umorismo, diversa da quella dello humour degli uomini, e la base di tale differenza viene indicata nella cultura.
Analisi psico-socio-linguistiche evidenziano differenze quantitative e qualitative tra i due sessi: le donne produrrebbero jokes meno frequentemente rispetto agli uomini e utilizzerebbero motti di spirito meno «arrischiati» destinati ad un pubblico di età e sesso meno eterogenei; inoltre, le donne godrebbero del potenziale assurdo dei jokes molto più che di quello aggressivo (MITCHELL C. 1985). Determinante sarebbe la prudenza delle donne, legata alla codificazione sociale dei comportamenti e, nello specifico, dal diverso impatto delle tradizionali regole di modestia sull’acquisizione di competenze retoriche da parte dei due sessi (PALMER J. 1995), nonché dalle aspettative sociali in base all’età (MCGHEE P.E. 1979).
Diversa la prospettiva di Helga Kotthoff che, negli anni ’70, studia le differenze dell’umorismo infantile tra i due sessi definendo la prudenza come stereotipo che connota la marginalizzazione delle donne. In particolare, la sua critica si rivolge alla limitazione, svalutazione e negazione delle pratiche umoristiche femminili e agli stereotipi riproposti e perpetuati nelle ricerche sullo humour stesse (KOTTHOFF H. 1988).
In generale, viene rilevata la differenza tra umorismo maschile, che privilegia aggressività e volgarità, e femminile, caratterizzato da causticità e insolenza parodica.
Daniel Weil assume un approccio psicoanalitico sostenendo che l’umorismo degli uomini riguardi il pregenitale e si esprima con il riso scatologico o sessuale volgare (WEIL D. 1995). Al contrario, l’umorismo delle donne è parodico, tagliente, una voce discordante nell’ambito del consenso fallocratico e che si oppone, tramite l’irriverenza, ai valori dominanti. Questo è dovuto all’autonomia fondamentale della donna: la precoce separazione edipica dalla madre, il più franco superamento della libido pregenitale, l’istinto materno che implica una ristrutturazione dei valori intorno alla capacità di amare renderebbero l’umorismo femminile strettamente collegato alla sfera dell’altro da sé. Inoltre, secondo Regina Barreca, i pilastri della società ne costituirebbero il bersaglio privilegiato (BARRECA R. 1988).
La variabile gender è stata frequentemente presa in considerazione a proposito dell’umorismo per quanto riguarda: status, aggressività, schieramento sociale, corporeità e sessualità (KOTTHOFF H. 2006); maggiore-minore tendenziosità rispetto a tematiche aggressive o sessuali; maggiore-minore volontà di stabilire un dominio o controllo sociale; scelta di argomenti più vicini al mondo maschile oppure femminile; altri indicatori sociali, come l’età, l’ethnos, lo status socio-economico (LAMPERT M., ERVIN-TRIPP S. 1998).
È comunque vero che, se il gender resta una categoria importante nello studio delle pratiche umoristiche, è anche vero che sempre più attenzione viene prestata al variare di tale fattore a seconda del contesto.
Marina Mizzau rilegge la stereotipizzazione grazie all’adozione di un’ottica sociologica situata e definisce la prudenza come forma «consona» e prediletta dalle donne in quanto soggetti storicamente subordinati nel sistema patriarcale e nella relazione di coppia: l’ironia, costitutivamente ambigua, sovversiva, trasgressiva e al tempo stesso ellittica e prudente, avrebbe consentito alle donne di preservare l’incolumità confliggendo obliquamente.
L’adozione di un’analisi situata avrebbe permesso di individuare, quale luogo privilegiato della pratica dell’umorismo femminile, la dimensione del privato. Come avviene per lo humour in generale, sono infatti fondamentali la complicità tra attanti, la condivisione di un universo fattuale-valoriale e la conoscenza esclusiva propria di un gruppo. Le donne ridono di più tra loro, quando non ci sono aspettative e condizionamenti sociali modellizzanti e repressivi e possono essere protagoniste di un umorismo intimo. Il riso diventa così una pratica senza costi, che non minaccia l’altro (si ride con e rispetto a le assurdità del vissuto, e non di qualcuno), in un’esibizione collettiva-cooperativa di esperienze simili.
Un’analisi a sé merita l’autoironia. In questo caso si contrappongono l’umorismo femminile domestico o matriarcale proprio delle donne come minoranza oppressa (KOTTHOFF H. 2006) e l’umorismo femminista.
Marisa Forcina sostiene che l’autoironia rispetto all’immagine del sé femminile tradizionale sedimentatasi nell’immaginario, sarebbe in rapporto col meccanismo di distanziamento dal modello di femminilità proposto e affermato dall’uomo (FORCINA M. 1998). A sua volta, Marina Mizzau vede l’autoironia femminile come citazione e messa in questione dell’irrisione delle donne operata dal linguaggio maschile e dalla connivenza delle stesse donne rispetto a ciò. L’autoironia, apparentemente remissiva e prudente, sarebbe in realtà socraticamente strategica, in quanto può rendere più efficace la contestazione nei confronti del sistema dominante.
Lucie Joubert si chiede se sia stato il femminismo a permettere lo sbocciare di una particolare ironia o se sia stata l’ironia, per eccellenza risvegliatrice delle coscienze, ad aver permesso ad alcune donne di scoprirsi femministe (JOUBERT L. 1992). L’espressione humour femminista è apparentemente un ossimoro, dati l’urgenza e il forte coinvolgimento che connotano la militanza: chi milita fa corpo con l’oggetto della propria lotta e non ha il distanziamento necessario per praticare l’umorismo e l’ironia.
Benoite Groult sottolinea che la mancanza di spirito riguarda il momento autorale del movimento femminista: la libertà di fare umorismo è considerata un lusso esercitabile dalle donne solo dopo essersi appropriate della libertà di espressione e dell’autodeterminazione (HOUSSIN M., MARSAULT E. 1999). In realtà, le femministe avrebbero comunque utilizzato la parola umoristica non solo per la sua funzione di sfogo e sollievo, ma anche perché volevano accedere ad una pratica da cui erano state escluse le donne, trasformandole in soggetto di umorismo dopo che per secoli erano state tra gli oggetti privilegiati della satira maschile, nonché liberarle dal pregiudizio che le voleva prive di senso dell’umorismo. Si vedano in proposito gli slogan e i manifesti del periodo d’oro del movimento emancipazionista in Italia (PAOLI F. 2009).
Il rapporto problematico dell’ironia è stato studiato anche nella fase dell’elaborazione di quanto avvenuto nel/grazie al movimento delle donne e sono state proprio studiose che erano state attive militanti a farlo.
Marina Mizzau parla della valenza relazionale-citazionale di parole e gesti pubblici ironici delle femministe: nelle pratiche ironiche di parafrasi-rovesciamento e in quelle provocatorie e d’irrisione, l’altro, l’uomo fautore del patriarcato, è stato coinvolto quale bersaglio privilegiato nonché interlocutore e destinatario (così, seppur diversamente, le altre, le donne non consapevoli).
Anche Mary Crawford insiste sulla valenza citazionale, poiché comportamenti tradizionalmente maschili possono essere ironicamente adottati dalle donne per prendere distanza dalle aspettative sociali legate allo stereotipo della femminilità (CRAWFORD M. 1989).
Le ricerche sull’ironia femminista hanno concorso a ridefinire il concetto stesso di conflitto in chiave di genere ed evidenziato come le femministe abbiano contribuito, a partire dalle loro pratiche, a riscoprirlo quale primo passo verso il dialogo con gli uomini.
Judith Little individua un «umorismo femminista» sovversivo e creativo, e parla di decostruzione della/e norma/e e di liminalità: ad esempio, i momenti più riusciti di women comedy coincidono con narrazioni di momentoi-riti di transizione-passaggio.
Forcina e Mizzau leggono l’ironia femminista come gesto attivo, al contempo contestatario e propositivo, come apertura di un confronto talvolta anche duro. In particolare, Forcina parla di una soluzione parziale creativa del conflitto, di irrisione, attacco e contestazione in una situazione che vede un posizionamento di continuità-discontinuità con il proprio bersaglio (LONZI C. 1970).
Infine, a proposito del pensiero femminista portmoderno troviamo le riflessioni di Adriana Cavarero che evidenzia la trasformazione della legge della ripetizione in mimesi e parodia che ne dissolve gli effetti di stabilità sulle identità compiuta del drag (travestimento con abiti del sesso opposto). Il riferimento é alla prefazione dell’edizione italiana di BUTLER J. 2013, scritta da Adriana Cavarero. Liana Borghi, invece, pone l’accento sulla destrutturazione del genere «tramite micro e macro spostamenti mimetici quali travestimento, ironia e atti di insubordinazione parodica» e ricorda come l’ironia del gender b(l)ending (mescolanza di generi) costituisce «una strategia politica squisitamente postmoderna» (BORGHI L. 2001, pp. 145-146).
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